Gli sviluppi scientifici e tecnologici degli ultimi anni connotano le biotecnologie come una delle discipline cruciali di questo secolo. Non solo grazie ai risultati della ricerca in campo medico, ma anche mediante gli avanzamenti ottenuti in altri ambiti, da quello dei nuovi materiali fino alla microelettronica e alle nanotecnologie. La combinazione e l’ibridazione tra discipline tecnologiche sta trasformando i modelli di progettazione e di utilizzo dei prodotti secondo il noto paradigma della sostenibilità. In molti dei paesi industrializzati gli investimenti in ricerca e sviluppo nel settore biotech sono cresciuti a ritmo sostenuto negli ultimi anni (+9% in Italia tra il 2002 e il 2006) con un sensibile incremento del fatturato complessivo del settore. Così come crescono l’attenzione e il sostegno delle istituzioni, soprattutto per quanto riguarda ricerca e formazione.
Per le scienze della vita la strada è quella della multidisciplinarietà e dei collegamenti tra i saperi. Pensiamo a un braccio bionico progettato per interpretare i segnali elettrici dei nervi in modo da rispondere agli impulsi proprio come un arto naturale: realizzarlo ha implicato il concorso di applicazioni biologiche, meccaniche ed elettroniche. Questo schema, pur con sensibili differenze da caso a caso, si ritrova in molte delle linee di sviluppo in ambito biotech.
La storia della Wetware Concepts, nata come spin off dell’Università di Padova, ha vissuto un passaggio cruciale nel 2008 quando l’esperienza di ricerca in microelettronica è stata completata con l’apporto di Alessandro De Toni, esperto in biosensoristica. Il risultato avrebbe un anno dopo preso il nome di Myochip, una complessa integrazione fra tecnologia genetica e nano-microelettronica.
Myochip è capace di misurare le reazioni biochimiche delle cellule, segni di alterazioni esogene la cui individuazione si rivela utile in molti campi, dall’antidoping alla qualità degli alimenti. Una parte del lavoro di ricerca – quella nell’ambito dell’ingegneria genetica – ha permesso di ottenere cellule dalle risposte biochimiche amplificate rispetto a quelle naturali, che sono di intensità molto bassa. Il rilevamento avviene mediante biosensori nanostrutturati (a forma di “chip”) i quali, grazie all’azione ricombinante di un enzima che converte i segnali biochimici in elettrici, accertano eventuali anomalie nelle cellule. Un dispositivo microelettronico, infine, funge da “cervello” ed elabora la risposta del sensore. I vantaggi rispetto alle rilevazioni tradizionali (le classiche analisi di laboratorio, con tanto di provette e reagenti) sono molti, e coniugano l’affidabilità con l’abbattimento dei costi. La tecnologia Myochip di fatto permette di non definire a priori l’agente esogeno da ricercare (come potrebbe essere l’epo nel caso del doping): saranno le cellule a parlare, senza che venga loro suggerito alcun nome. Un aspetto che si rivela fondamentale anche in altri campi, come ad esempio la prognostica dei tumori.

Leonardo Bandiera, 35 anni, è amministratore delegato di Wetware Concepts.

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