Eliminare l’anidride carbonica dall’aria delle astronavi è un problema che ha seriamente impegnato i progettisti, fin dall’inizio dell’era spaziale. I costruttori di razzi si resero conto da subito che non bastava fornire a cosmonauti e astronauti un flusso costante di ossigeno, ma all’interno delle navicelle era anche necessario rimuovere l’anidride carbonica prodotta dall’equipaggio. Uno dei tanti problemi che l’uomo nello spazio si trovò ad affrontare per la prima volta. Infatti, anche nei sommergibili di allora, entrambe le questioni venivano semplicemente risolte issando dei tubi, gli snorkel, sopra la superficie del mare per pompare dentro l’aria fresca e spingere fuori quella viziata. Una soluzione certamente non utilizzabile nello spazio. L’ossigeno rappresenta circa il 21% in volume dell’aria che respiriamo, ma l’organismo umano riesce a sopravvivere bene anche con concentrazioni fino al 15-17%. Al di sotto di questa soglia cominciano a verificarsi stati confusionali e diminuisce la capacità di compiere sforzi fisici. L’anidride carbonica invece rappresenta solo lo 0,04% dei gas presenti in atmosfera, 400 parti per milione. Se nell’aria che respiriamo la concentrazione di ossigeno cala anche di qualche punto percentuale non ce ne accorgiamo, ma se ad aumentare (anche di poco) è la CO₂, immediatamente il nostro organismo reagisce aumentando la frequenza della respirazione.

Per questo, oltre a disporre di bombole di ossigeno per rimpiazzare quello consumato dagli astronauti, tutte le navette spaziali vengono dotate di sistemi per la cattura e l’eliminazione dell’anidride carbonica: gli scrubber. Ciascuno di questi deve poter eliminare dall’atmosfera della navetta la CO₂ emessa da ogni componente dell’equipaggio: circa un chilogrammo a testa ogni 24 ore. Durante i programmi Mercury, Gemini, Apollo e Shuttle, la NASA ha impiegato scrubber chimici. L’aria della cabina veniva pompata dentro canestri porosi pieni di cristallini di idrossido di litio. La CO₂ reagiva formando carbonato di litio e acqua e l’aria ripulita veniva arricchita di ossigeno prelevato da bombole sotto pressione e immessa nuovamente in cabina. Il problema era che questi filtri dovevano essere periodicamente sostituiti quando l’idrossido di litio si era interamente convertito in carbonato.
I sovietici raggiunsero i loro primati spaziali grazie a un sistema differente. Già nello Sputnik 2 di Laika e nella Vostok 1 di Gagarin l’ossigeno era immagazzinato non come gas sotto pressione, ma allo stato solido come superossido di potassio (KO₂). L’aria viziata veniva inviata nel contenitore del KO₂ provocando una reazione esotermica che catturava l’acqua, liberando ossigeno e idrossido di potassio (KOH). L’ossigeno rimpiazzava quello respirato dai cosmonauti, mentre il KOH reagiva con la CO₂ formando carbonato di potassio. In questo modo, si eliminavano l’anidride carbonica e l’acqua prodotte dalla respirazione, si mantenevano caldi gli strumenti e si rigenerava l’ossigeno necessario. Serviva energia elettrica solo per la pompa, c’erano pochissime parti in movimento che potevano rompersi e non c’erano gas sotto pressione. Il sistema funzionava bene, con ingombri e pesi così contenuti e per questo motivo venne applicato anche alle Voskhod e alle Soyuz.

Il problema di come costruire scrubber efficienti si è ripresentato quando vennero lanciate le prime stazioni spaziali permanenti, per le quali vennero abbandonati i sistemi chimici impiegati nelle navicelle per svilupparne di nuovi ad adsorbimento. Questi hanno all’interno un solido poroso molto affine all’anidride carbonica, che vi rimane appiccicata se ci viene pompata sopra. Quando questo scotch molecolare è saturo di CO₂, basta chiudere le valvole di collegamento con la cabina, aprire quelle verso l’esterno, per fare sì che la CO₂ lo abbandoni e si disperda nel vuoto spaziale. Il materiale è così pronto per un nuovo ciclo di adsorbimento. Lo stesso sistema viene utilizzato per estrarre l’acqua emessa dalla respirazione dell’equipaggio. Prima sulla stazione spaziale Skylab e poi nella sezione americana della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), sono stati installati scrubber basati su cristalli di biossido di silicio e di alluminio chiamati zeoliti. Si tratta di setacci molecolari con fori di dimensioni precise realizzati su misura per avere la massima affinità possibile proprio per molecole di una certa dimensione. In particolare, gli americani usano le Zeolite 13x (perfetta per assorbire acqua) in combinazione con la Zeolite 5A (ottimizzata per assorbire anidride carbonica).
Due di questi sistemi, chiamati Carbon Dioxide Removal Assembly (CDRA), sono presenti sia nel Node 3 che nel laboratorio Tranquillity nella sezione americana, e sono in grado di mantenere in vita un equipaggio di 4 persone più alcune cavie di laboratorio. I russi hanno adottato un sistema differente chiamato Vozdukh. Installato nel Modulo di Servizio del Segmento Orbitale Russo, adsorbe H₂O e CO₂ grazie alle proprietà basiche di tre differenti letti di ammine. La tecnologia è più semplice e senza parti in movimento, escluse le valvole. Deriva dall’esperienza fatta dai sovietici sulle sei stazioni spaziali Salyut e poi sulla MIR. L’ultima versione, installata a bordo della ISS, è in grado di sostenere indefinitamente un equipaggio di 6 persone rimuovendo 3000 litri di anidride carbonica al giorno. Il sistema complessivo sulla ISS è così ridondante: Vozdukh rappresenta il sistema primario, mentre CDRA interviene quando Vozdukh è in manutenzione. Se tutti i sistemi dovessero andare contemporaneamente in avaria, sulle Soyuz sempre collegate alla ISS si trovano scrubber chimici del vecchio tipo, ma sempre in grado di sostenere ciascuno un equipaggio di tre persone per 15 giorni. Dopo l’esperienza con Apollo 13, proprio per non lasciare nulla al caso, sugli Shuttle che hanno raggiunto la ISS fino al 2011 erano anche disponibili degli adattatori in grado di raccordare e fare funzionare gli scrubbers americani con i canestri russi.

Un altro passo da gigante che gli esploratori del cosmo dovranno affrontare, sarà quello di creare stazioni spaziali o colonie permanenti, cominciando dalla Luna e da Marte, in cui i sistemi di purificazione dovranno mantenere un habitat vivibile per un tempo indefinito. Sulla Luna, priva di atmosfera, sarebbe possibile utilizzare gli scrubber a due tempi sviluppati sulla ISS, ma su Marte il problema si complica, perché l’atmosfera marziana è costituita quasi interamente da CO₂. Un letto adsorbente esposto all’atmosfera marziana non si ripristinerebbe ma, al contrario, verrebbe completamente avvelenato dalla sovrappressione di anidride carbonica. Per questo, a bordo del rover Perseverance con la missione MARS 2020, il MIT e l’Istituto Niels Bohr hanno installato il Mars Oxygen In-Situ Resource Utilization Experiment (MOXIE). Questo impiantino sperimentale dovrebbe dimostrare la possibilità di convertire la CO₂ atmosferica marziana in monossido di carbonio e ossigeno.
Il Sabatier invece, è un processo già testato sulla ISS. Trasforma l’umidità emanata dall’equipaggio grazie a un elettrolizzatore e l’ossigeno così ottenuto può essere respirato dall’equipaggio o diventare comburente nei sistemi di propulsione. L’idrogeno invece, viene combinato con l’anidride carbonica prodotta dall’equipaggio, per ottenere metano e acqua con un processo catalitico a base di nickel, un catalizzatore a km zero, perché presente a sufficienza nelle rocce marziane. Il metano può poi essere mescolato con l’ossigeno nel sistema di propulsione. La stechiometria ci dice che rimane anche una piccola percentuale di ossigeno in più, utilizzabile per il sostentamento dell’equipaggio. Tutte queste tecnologie possono funzionare durante le fasi di costruzione della colonia, ma quando questa sarà a regime e i coloni dovranno imparare a cavarsela da soli per un tempo indefinito senza rifornimenti dalla Terra, probabilmente la miglior tecnologia di rigenerazione dell’aria sarà costituita da sistemi biologici. Questi ultimi, una volta avviati, avranno il vantaggio di non richiedere una profonda manutenzione, grazie alla capacità di moltiplicazione e autoriparazione degli stessi organismi.

Fonte Eni.com https://www.eni.com/it-IT/ricerca-scientifica/spazio-senza-co2.html