Eppur si muove. Le difficoltà sono conosciute: gli investimenti in ricerca modesti, un sistema finanziario con scarsa propensione al rischio, le università ancora troppo distanti dalla concretezza dell’industria. Soprattutto, l’incapacità di fare squadra, di muoversi in rete per reperire competenze qualificate e cogliere opportunità di mercato.Tutto vero. Ma l’Italia dell’innovazione va. Gli imprenditori hanno ormai la piena consapevolezza di come proprio l’innovazione sia la carta vincente nella competizione globale. E magari in modo spontaneistico, più intuitivo che pianificato, stanno sperimentando modelli organizzativi, processi produttivi, tecnologie che possano tradursi in prodotti e servizi ad alto valore aggiunto.
Bando alla retorica del declino. Se c’era bisogno di una conferma, di vedere che il Paese non ha intenzione di arretrare, ecco due studi appena sfornati: il Rapporto 2008 sull’innovazione della Fondazione Cotec di Torino e il Check-up dell’innovazione promosso dalla Sda Bocconi. Due fotografie che mostrano il medesimo soggetto: un tessuto industriale e imprenditoriale in movimento, scosso dai fermenti dell’information technology, alla ricerca di un posizionamento migliore nella scala competitiva.
Certo, rimane un’immagine a macchia di leopardo. Con il Sud in forte ritardo rispetto al Nord: è sufficiente guardare la differenza nella spesa in ricerca e sviluppo. E con alcune aree particolarmente virtuose, quelle dove, sotto la spinta delle amministrazioni pubbliche, si è realizzata per la prima volta un’alleanza strategica tra imprese e atenei per la nascita di incubatori di start-up e di centri di studi avanzati. E’ il caso di Torino e di Milano, che hanno riscoperto il ruolo propulsore dei politecnici. Di Trento, dove la provincia si è lanciata in un’autentica politica dell’innovazione. Di Trieste, con il suo Science Park meta di decine di Premi Nobel. Della Sardegna, che Renato Soru, fondatore di Tiscali e oggi presidente regionale, vorrebbe fare diventare il cuore dello sviluppo delle tecnologie dell’informazione.
Ma il problema non è mostrare come un fiore all’occhiello le esperienze d’eccellenza o puntare l’indice contro chi è fermo al palo. Il nodo è il salto di qualità complessivo del Paese. Bene, è qui che si osservano le note più confortanti. Dal Rapporto del Cotec risulta che le imprese, dal 2000 al 2005, hanno aumentato del 6% gli investimenti in R&S. Ancora più marcata, sempre rimanendo nel campo della R&S, la crescita per quanto riguarda il numero di addetti: più 18,6 per cento. In particolare, si evidenzia il dinamismo delle piccole e medie imprese: il 71% (contro una media europea del 64%) ha cercato maggiore competitività sugli scenari internazionali con un incremento della qualità dei prodotti. Inoltre, il 12% del loro fatturato deriva da prodotti e servizi innovativi: un dato in media con l’Europa, ma superiore a quelli di Germania, Francia e Spagna.
Significativi anche i risultati che affiorano dal Check-up dell’innovazione lanciato dalla Sda Bocconi. Un questionario proposto via internet. Obbiettivo: intrecciare la propensione generale all’innovazione con la capacità di sfruttare al meglio le opportunità offerte dalle tecnologie informatiche. Le risposte, finora, sono state 1300. Emerge che il 36% elle imprese si colloca in una situazione di stasi, ma d’altro canto è estremamente positivo constatare che il 34% agisce in un terreno di trasformazione continua e che il restante 30% è comunque in movimento.
Tutto bene, dunque? Nemmeno per sogno. Perchè poi bisogna fare i conti con i limiti strutturali del sistema Italia e con la nostra proverbiale incapacità di fare sistema. “Siamo un popolo di inventori” sorride Paolo Pasini, il professore dell’area Management information systems della Bocconi che con il collega Gianluca Salviotti ha elaborato il Check-up. “Le idee non mancano di sicuro – continua. Le difficioltà saltano fuori nei passaggi successivi: lo sviluppo, l’industrializzazione, il lancio sul mercato”. Forse gli imprenditori continuano a pensare di poter gestire la complessità dell’innovazione esclusivamente all’interno, mentre dovrebbero ricorrere con decisione all’outsourcing. Ma il punto è che ci vorrebbero strutture ad hoc facilmente accessibili, luoghi in cui esporre i problemi e cercare soluzioni. “Non manca tanto l’innovazione, piuttosto un network per l’innovazione” aggiunge Salviotti. Che non risparmia critiche all’università: “Dovrebbe essere la funzione ricerca e sviluppo di un territorio – spiega -. Invece rimane chiusa nei rituali accademici. E le relazioni con il mondo industriale sono in un’ottica contingente anzichè sistemica”. Come dire che l’imprenditore si appoggia all’università per risolvere questioni specifiche, spesso di natura tecnica, e non riesce a vederla come motore per nuove opportunità di business.
Lo stesso Rapporto del Cotec non nasconde che molta strada deve ancora essere fatta. E mette in evidenza una serie di debolezze. In primo luogo l’accesso al credito. “Persino i fondi di venture capital – sostiene Riccardo Viale, direttore generale e consigliere delegato del Cotec – sono ben poco disponibili a finanziare le idee. Insomma, partire è difficilissimo. Infatti, il più delle volte ci si ferma già al primo scoglio: la brevettazione”. Secondo il Rapporto, tuttavia, la vera deboleza riguarda il capitale umano. Solo il 12,25% della popolazione italiana possiede una laurea, la metà rispetto alla Francia e alla Spagna. E appena il 51% dispone di un diploma, contro il 70% della media dell’Europa a 27 Paesi. Il risultato è che, specie nella piccola e media impresa, viene impiegata una quota di manodopera qualificata molto inferiore che nelle aziende concorrenti internazionali. “L’innovazione – conclude Viale – passa obbligatoriamente dalla riscoperta del merito”. Tema assai caldo in questi giorni. La parola merito richiama immediatamente il pubblico impiego. Ma farebbe sempre più comodo anche nelle fabbriche della Brianza o del Nordest.
Sandro Mangiaterra, Editorialista dei quotidiani veneti del Gruppo L’Espresso, collabora con Il Sole 24 Ore