L’esperienza delle migliori realtà di sviluppo locale a livello internazionale ci insegna che: 1) Le migliori realtà internazionali di innovazione sono originate dal basso soprattutto dalla spinta imprenditoriale con o senza la cooperazione delle strutture accademiche. I sistemi territoriali dell’innovazione sono rappresentabili come sistemi complessi adattativi dove l’emergenza del fenomeno innovativo avviene con scarsa influenza diretta dei governi locali o nazionali. I governi possono incidere soprattutto su alcune condizioni di partenza attraverso incentivi istituzionali, capitale umano, infrastrutture, e domanda tecnologica, ma non riescono innescare il processo se non è presente una peculiare componente imprenditoriale coerente con le opportunità offerte dal territorio che funga da detonatore dello sviluppo.
2) Maggiore è la pluralità, la variegatezza e la differenza cognitiva e di cultura tecnologica ed imprenditoriale di un territorio maggiore è la capacità dello stesso di reagire ai segnali che vengono dai mercati, a rilevare le opportunità tecnologiche, in definitiva a fornire una risposta adattativa ed evolutiva di tipo innovativo. Da questo punto di vista la ricchezza di differenze che caratterizza l’Europa è un bene da proteggere e da potenziare. Quindi vanno contrastate politiche di omogeneizzazione o di applicazione di modelli di successo di validità ecologica specifica e contingente.
3) Per superare la “path dependance” delle imprese cioè la loro tendenza a seguire percorsi tradizionali, ad essere mosse dalla inerzia organizzativa e dai paradigmi tecnologici dominanti è fondamentale la permeabilità dell’impresa verso l’esterno ed un ambiente ricco di stimoli conoscitivi ed innovativi in grado di essere trasferiti al suo interno. Da questo punto di vista i governi soprattutto locali, ma anche nazionali ed europei hanno il compito di introdurre incentivi selettivi che portino l’azienda a comunicare con le fonti della conoscenza esterne (università, imprese, associazioni, centri di ricerca e di consulenza, etc..), a contaminarsi con idee e modelli eterodossi, ad entrare senza riserve nell’economia della conoscenza.
4) Uno degli elementi fondamentali delle aree di successo innovativo ed industriale è la cultura dell’innovazione. Con questo termine si intendono vari aspetti. Sicuramente la alfabetizzazione tecnologica o “technology literacy” e un atteggiamento favorevole nei confronti della tecnologia e dell’innovazione sono fondamentali sia per creare nuovi innovatori sia per avere un mercato di consumatori potenziali non pregiudizialmente avversi ai nuovi prodotti. Un altro importante aspetto è la presenza di una tipologia di pensiero rivolta alla creatività e alla ricerca di soluzioni nuove ai problemi. Questo stile cognitivo verso la creatività e l’inventiva è qualcosa che deve essere insegnato ai bambini fin dai primi anni di vita. Il periodo delle scuole superiori è già troppo tardi. Infine, l’aspetto forse più trascurato della cultura dell’innovazione, ma che è cruciale soprattutto per sviluppare l’imprenditorialità, è l’atteggiamento positivo nei confronti del rischio e dell’insuccesso. La propensione o l’avversione al rischio sono valori che fanno parte della nostra conoscenza di sfondo tacita e che noi assorbiamo da tante fonti culturali, nella famiglia, nella scuola, nei media. Cambiare un terreno di cultura pervasivo che in molti paesi europei è avverso al rischio e bolla l’insuccesso come peccato mortale non è facile. Per tutte queste componenti della cultura dell’innovazione la mano pubblica ha un compito ineludibile e insostituibile.
Chi di noi ha studiato la realtà del rapporto fra università ed impresa sa che la modalità del trasferimento tecnologico attraverso brevetti e licenze è solo una parte minoritaria del contributo accademico all’innovazione. Molto più importante è il ruolo dell’università come “public space” cioè come luogo dove ricercatori e persone dell’impresa possano scambiare riflessioni sul futuro tecnologico, conoscere i reciproci programmi di ricerca, confrontarsi su problemi ancora da risolvere, in definitiva meeting, conference, seminari, workshop, standard forum, forum “knowledge to business”, visite ai laboratori, conversazioni, etc.. A questa funzione si aggiunge quella ancora più importante dell’integrazione dell’attività di ricerca, attraverso il “transfer by head”. In una recente ricerca svolta nel 2002 da Agarwall e Henderson tra i docenti del MIT, possessori di brevetti, si è constatato come fra tutte le modalità di trasferimento della conoscenza quella legata a brevetti e licenze aveva una importanza relativa solo del 7%, mentre quelle legate al ruolo dell’università come public space arrivavano al 11% e quelle relative alla integrazione dell’attività al 64%! Un altro mito da sfatare è che l’università sia sempre importante per lo sviluppo industriale come lo è stato il MIT per Route 128 o Stanford per Sylicon Valley. In un recente lavoro di Lester, realizzato su 24 sistemi locali di innovazione di successo, in varie parti del mondo, che comprendevano tipologie tecnologiche dalla media all’alta tecnologia e che includevano varie modalità di sviluppo industriale, dalla creazione ex novo, al trapianto dall’esterno, alla mutazione di una realtà industriale già presente si è constatato che il ruolo dell’università come fornitore di tecnologie essenziali per l’impresa era presente solo quando si trattava della creazione di un nuovo settore industriale “science based” (come nel caso della bioinformatica a Cambridge o del software a Taipei). Diventa invece meno essenziale nelle fasi iniziali, anche se rimane prezioso in quelle di consolidamento dello sviluppo, nelle altre situazioni dove il settore industriale non è “science based” e si tratta di imprese già esistenti, di medie e piccole dimensioni. In questi casi, che sono tipici della realtà industriale del sud Europa, il ruolo dell’università è legato più alla formazione, assistenza tecnica, trasferimento di risorse umane, identificazione della missione tecnologica locale e anticipazione degli sviluppi tecnologici futuri.

Riccardo Viale, Presidente della Fondazione Rosselli e Direttore generale della Fondazione Cotec


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