Circa 70mila utenti di LinkedIn dichiarano di avere avuto professionalmente a che fare con l’Open Innovation. Di questi open innovation professionals, più di 5mila sono attivi in Italia. Ne sarà contento Henry Chesbrough, che circa 15 anni fa coniò questo termine e che oggi è titolare di una cattedra presso la Luiss di Roma. Quali sono però le condizioni che permettono a un’azienda di raccogliere i frutti di una strategia di innovazione collaborativa? Nel presentare il rapporto 2021 della Fondazione Cotec, il dg Paolo Di Bartolomei ha dichiarato che proprio questa domanda ha motivato uno studio che annualmente mette al centro i temi chiave per l’innovazione italiana.

L’analisi rappresenta inequivocabilmente un punto di svolta per l’attività di ricerca sull’impatto dell’open innovation. Il rettore della Luiss Andrea Prencipe, esperto di organizzazione aziendale, ha sottolineato come l’evidenza raccolta dai ricercatori guidati da Valentina Meliciani (Luiss) e Carlo Napoli (Fondazione Enel) possa corroborare il passaggio da un’intuizione a un vero e proprio principio organizzativo gestionale.

Lo studio conferma che certi settori industriali, come ad esempio l’Ict, si dimostrino – ad oggi – più fertili e pronti ad adottare prassi di innovazione aperta. Inoltre, sottolinea lo stesso Chesbrough, che non esista una ricetta applicabile su ogni azienda e su ogni settore. Commentando il rapporto, Marco Gay, imprenditore e presidente Anitec, evidenzia che la grande sfida per l’Italia sarà quella di importare prassi di open innovation nei settori più tradizionali.

Altra domanda chiave a cui il rapporto inizia a rispondere è come misurare l’adozione di open innovation. Infatti, secondo Carlo Papa (Fondazione Enel), è solamente quando abbiamo chiaro cosa funziona e cosa non funziona che una strategia aziendale e una politica industriale possono andare ad amplificare singole prassi di innovazione aperta.

Era noto da tempo che applicare l’open innovation non volesse solo significare dichiararsi aperti alle idee che provengono da fuori. Era noto come fosse necessario accompagnare questa apertura con cambiamenti nei processi, nei modelli di business, nello stile di leadership e nelle strategie di protezione e valorizzazione dei risultati. Era inoltre risaputo che gli indicatori tradizionali di apertura delle aziende – la numerosità e varietà di collaborazioni e l’intensità di queste relazioni con fornitori di conoscenza esterna – non fossero da soli sufficienti per spiegare le differenze in termini di performance innovativa.

Il focus sulle 200 aziende italiane analizzate dal team di ricerca conferma che un impatto positivo si ha quando l’apertura avviene dall’interno dell’azienda stessa. Quando, in altri termini, l’azienda accompagna la sua spinta verso le tecnologie esterne con un convinto investimento sulle capacità dei propri ricercatori e manager, anche quelli che di innovazione aperta non si occupano. Sono questi i soggetti che saranno chiamati ad assorbire, interpretare e combinare i buoni stimoli che arrivano da fuori e a tradurli in nuovi modelli di business. In contesti in cui manca questo investimento interno, il risultato è un terreno arido su cui non fioriscono nuove opportunità.

Gli artefici dell’open innovation non sono dunque solo quei 70mila open innovation professionals, ma sono da ricercarsi all’interno dell’organizzazione aziendale e tra tutti quei soggetti che operano nell’ecosistema del trasferimento tecnologico.