Negli ultimi tempi vari top manager di imprese tecnologiche dichiarano la difficoltà a collaborare con le migliori università americane. Il vicepresidente dell’Ibm Stuart Feldman dichiara al New York Times: “Le università hanno reso la possibilità di fare ricerca con loro sempre più difficile a causa di tutte le questioni contrattuali sui diritti di proprietà. Ci piacerebbe che le università si aprissero di nuovo”, cioè che fossero disponibili a collaborare apertamente liberandosi dei ritardi, derivanti dalle costose e lunghe negoziazioni sui diritti di proprietà intellettuale. L’accusa delle imprese è che dalla promulgazione della legge Bayh-Dole in Usa e di leggi analoghe nei paesi europei, che rafforzano la proprietà intellettuale alle università, queste abbiano realizzato una vera mutazione nelle loro priorità. Centrale è diventata la difesa legale della proprietà intellettuale, mentre la politica di innovazione e di rapporto con l’impreda è stata sempre più demandata agli uffici di servizi e sempre meno ai ricercatori.
L’interazione con l’impresa viene ridotta a quella di trasferimento di brevetti e licenze mentre si riduce la collaborazione in progetti comuni. La scarsa propensione al rischio dei funzionari dei centri servizi verso complicazioni legali relative ai diritti di proprietà finisce, poi, per rendere sempre più difficili i progetti comuni università-impresa. A questo fenomeno se ne aggiunge un altro che riduce l’ottimizzazione a fini innovativi della conoscenza generata nelle università. Chi finanzia progetti di innovazione deve scontare soprattutto due rischi: da una parte quello di finanziare progetti fallimentari e dall’altra di farsi sfuggire i benefici economici dell’innovazione.
Vi sono tre modi per affrontare questi rischi. Quello tradizionale del credito bancario ha il vantaggio di avere, in teoria, una maggiore capacità di screening di innovazioni radicali ma una debole possibilità di ritorno economico in caso di successo. Ciò che viene ottenuto è solo il capitale imprestato con gli interessi.
L’altro modello tradizionale di finanziamento è quello della società di capitali. Esso ha il vantaggio di condividere maggiormente gli utili in caso di successo ma ha scarse capacità di selezione di progetti radicalmente innovativi. Il terzo che è emerso vincente in questi ultimi 40 anni è il venture capital che ha i vantaggi dei due precedenti senza averne gli aspetti negativi. Ciò che viene finanziato è però solo quella parte della conoscenza che ha un valore economico e che è commerciabile, cioè brevetto. Solo dal brevetto in poi l'”equity finance” del venture capital può investire e la start-up che viene generata può ambire a una capitalizzazione in un Nuovo Mercato. Tutto ciò che sta a monte nella ricerca tecnologica esce fuori dalle possibilità dela finanza per l’innovazione.
Il combinato disposto di questi due fenomeni, da una parte polarizzazione delle università sul “patent trasnfer” e dall’altra finanziamento solo delle fasi a valle, dopo la brevettazione, della ricerca tecnologica, sta portando all’indebolimento della generazione di conoscenza tecnologica da parte della ricerca accademica. Idee tecnologiche buone, eterodosse, ma ancora allo stadio immaturo er essere considerate degne di brevettazione e soprattutto di interesse da parte del venture capital, rimangono orfane di sponsor e finiscono per essere dimenticate e abbondanate. Questo gap nella filiera della innovazione ha effetti retroattivi negativi di tipo organizzativo e motivazionale. Ciò è particolarmente vero in Europa, e soprattutto in Italia e sta per essere accentuato dagli effetti della crisi finanziaria che ha ampliato e approfondito le dimensioni del gap (anche definito “death valley”)della catena dell’innovazione.
Quest’analisi si riscontra nei dati della Fondazione Cotec, presentati nel seminario “Il Ruolo della Finanza nel Trasferimento Tecnologico” organizzato recentemente a Roma.
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